Pubblichiamo l’orazione per la Festa della Liberazione che Francesco Cozzi, ex Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Genova, ha tenuto in occasione del 25 aprile in Piazza Matteotti. In particolare, evidenziamo i passi del suo intervento relativi al ruolo fondamentale che le donne hanno svolto durante la Resistenza e la Liberazione. La più recente storiografia, infatti, ha messo in evidenza il loro ruolo che, a lungo, è stato trascurato e nascosto.
Un protagonismo – il loro – rimosso a lungo dalle stesse componenti resistenziali, anche in ragione di una visione maschilista, che appare paradossale nel dopoguerra. Quando, proprio grazie alla lotta di resistenza, le donne entrarono a pieno titolo nella vita politica e godettero formalmente di quei diritti sanciti nell’articolo 3 della nostra Carta, a cominciare dal diritto di voto da esso esercitato, per la prima volta nella storia nazionale, nel referendum del 2 giugno 1946.
Questa sorta di espulsione postuma delle donne nella resistenza risulta essere, inoltre, tanto più incomprensibile se si considera che, come scrivono Anna Brava e Anna Maria Bruzzone nel loro libro intitolato “Guerra senza armi”: “Esse sono state le uniche volontarie e… in quanto non sottoposte ai bandi di reclutamento e in generale non obbligate al nascondimento” e aggiungono che “il loro impegno si manifestò sia nello scontro armato, che nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento” nei gruppi della difesa della donna, come nelle altre organizzazioni femminili.
[…] Il loro numero si stima molto superiore alle 35.000 partigiane riconosciute in base alle domande presentate alle commissioni competenti alla fine del conflitto.
Un numero che ha anche in Liguria andrebbe ben oltre il 2.028 censite nella meticolosa ricerca dell’Istituto Ligure per la storia della resistenza e dell’età contemporanea. Molte subirono sevizie torture e stupri anche di gruppo considerato allora un reato contro la morale, non solo dalle brigate nere, ma anche dai militari della Repubblica sociale.
[…] Tra queste di donne ricordiamo:
Ines Negri, staffetta partigiana, seviziata e uccisa a Savona così come Clelia Corradini; e Chiarini Rina detta “Clara” arrestata e seviziata alla Casa dello Studente così da perdere il figlio che aveva in grembo.
Ora riproponiamo integralmente l’orazione di Francesco Cozzi.
Autorità civili, militari e religiose, cari cittadini e cari tutti oggi qui presenti siamo qui oggi per celebrare la 78ma ricorrenza della Festa della Liberazione.
Liberazione da che cosa ?
Dal nazifascismo, nell’80° anniversario del suo inizio, all’indomani dell’8 settembre 1943.
Per celebrare la Liberazione credo sia giusto muovere dall’ 8 settembre 1943 unanimemente considerato il momento più drammatico, angosciante e caotico, ma allo stesso tempo tra i più
decisivi dell’intera storia italiana dall’Unità ad oggi.
Quando il capo del Governo Maresciallo Badoglio annunciò per radio la firma dell’armistizio con gli anglo-americani, siglata alcuni giorni prima a Cassibile.
L’Italia cessava ogni ostilità nei confronti degli anglo americani.
La data dell’8 settembre, , rappresentò in verità uno spartiacque.
Da una parte una certa idea di Patria, quella che moriva, fondata sull’esaltazione della forza, sul mito della potenza coloniale e della razza italica.
Dall’altra una nuova idea di Patria, animata da un anelito di libertà, che in quell’ immane catastrofe iniziava a farsi luce nella coscienza collettiva.
Quel giorno moriva non la Patria ma morivano le istituzioni.
Per comprendere meglio la portata del disastroso collasso seguito a quell’annuncio, occorre
ricordare gli accadimenti e ciò che si agitava nell’animo degli italiani immediatamente dopo lo sbarco alleato in Sicilia iniziato il 9 luglio, dopo la seduta del Gran Consiglio che provocò la caduta
del regime il 25 luglio e dopo l’insediamento a capo del Governo del Maresciallo Badoglio.
Il Paese era stremato dalla guerra, con disfatte continue nonostante gli innumerevoli atti di eroismo dei militari italiani, dai continui bombardamenti, dalla mancanza dei generi di prima necessità e di medicine.
A seguito dell’arresto di Mussolini furono, infatti, settimane convulse, di esplosione di gioia perchè si riteneva imminente la fine della guerra .
Ma i 45 giorni che ne seguirono non furono giorni di festosa allegria, poiché al contrario furono segnati dall’ambiguità dei vertici dello Stato, che non esitarono a reprimere nel sangue le manifestazioni popolari di giubilo, lasciando sulle piazze 93 morti e centinaia di feriti.
Il Paese pareva vivere sospeso, incerto, angosciato, in un clima di ansiosa attesa, tra tumulti di speranza e cupa incertezza sul suo futuro.
L’improvviso annuncio dell’armistizio, senza che il Governo Badoglio avesse preparato una qualche strategia e impartito una minima e doverosa direttiva ai comandi dislocati nei vari teatri di guerra, lasciò nel totale abbandono circa due milioni di soldati italiani.
Il Paese si sarebbe spezzato in due, occupato di fatto da due eserciti stranieri: il Centro Nord dagli ex alleati tedeschi; il Sud dai futuri alleati Anglo americani.
Dal baratro in cui la Nazione era precipitata nasceva il 23 settembre la Repubblica Sociale, reincarnazione del fascismo mussoliniano, in posizione subalterna rispetto alla Germania nazista che aveva deciso l’occupazione militare di tutta la penisola con il piano Achse,
catturando centinaia di migliaia di soldati e impossessandosi degli armamenti.
Si scatenava così la guerra civile.
Ma se il Re, Badoglio e i capi militari si erano dati alla fuga, già prima di quella data molti soldati e civili avevano preso la via dei monti dando vita ai primi nuclei partigiani armati .E con loro, muovendo da una pluralità di motivazioni ideali e morali, molte altre componenti della società
civile contribuirono a formare un vero e proprio esercito di popolo che seppe risollevarsi da quel baratro e ridare dignità alla nazione.
Quali erano le motivazioni?
Le motivazioni spaziavano dal puro e semplice rifiuto morale dei militari italiani di consegnare le armi e assoggettarsi ai tedeschi, al diniego di molti giovani di arruolarsi tra le fila dell’esercito di Salò, nonostante le minacce di fucilazione, alla lotta degli operai che già nei mesi precedenti avevano promosso scioperi e atti di sabotaggio della produzione bellica. Una mobilitazione spesso spontanea e diffusa che nel tempo poté contare sulla generosa solidarietà dei contadini e
della popolazione civile senza la quale la Resistenza sarebbe stata più debole, se non addirittura impossibile.
Dunque erano fondamentalmente il no alla guerra e insieme la speranza di costruire un avvenire di giustizia e libertà che motivavano e unificavano quella che possiamo definire come la Resistenza civile di molti.
La quale si saldò con la Resistenza armata, che sorta spontaneamente veniva strutturandosi militarmente e politicamente attorno ai partiti antifascisti: democristiani, comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, liberali con le brigate Garibaldi, Matteotti, Giustizia e libertà , Mazzini, Fiamme verdi.
I partiti usciti dalla clandestinità, avevano dato vita al Comitato di Liberazione nazionale.
Per l’insieme di queste ragioni, dunque, come la storiografia ha puntualmente approfondito negli ultimi due decenni, emerge evidente la complessità e la specificità della Resistenza italiana.
Una certa visione agiografica la aveva esclusivamente identificata con la lotta dei partigiani.
Ma è ormai largamente condivisa la convinzione che la Resistenza non fu solamente la lotta armata delle formazioni partigiane in montagna e dei nuclei guerriglieri in città come i Gruppi di azione patriottica e le Squadre di azione patriottica che ne erano la parte più combattiva.
Vi fu una pluralità di motivazioni e di soggetti a dare impulso al moto di riscatto nazionale.
Ma quali erano le componenti sociali dietro quelle motivazioni?
Anzitutto la pagina scritta dai militari italiani, a lungo e ingiustamente confinati in una sorta di oblio, come accadde dolorosamente in quegli stessi anni del dopoguerra ai sopravvissuti dei campi di sterminio.
Fin dai giorni successivi all’8 settembre, innumerevoli sono gli episodi che videro i soldati italiani combattere e pagare un alto tributo di sangue per il loro rifiuto di cedere le armi ai reparti della Wermacht. Basti solo ricordare l’eccidio di migliaia di soldati e ufficiali della Divisione Acqui dopo la resa a Cefalonia, gli oltre mille soldati morti per opporsi spontaneamente insieme ai civili all’occupazione di Roma a Porta San Paolo.
In secondo luogo la penosa via crucis dei nostri militari deportati nei lager nazisti, circa 650 mila, ai quali non venne riconosciuta nemmeno la tutela prevista dalla convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra.
Per loro, infatti, con la complicità della Repubblica di Salò, venne coniata la denominazione di internati militari italiani (IMI) : uno status spurio, ambiguo, che li espose alle più vili umiliazioni e angherie.
Tra loro i duemila carabinieri il 7 ottobre disarmati per ordine del ministro Graziani alla vigilia delle razzie e deportazioni degli ebrei dal ghetto: i Carabinieri vennero arrestati proditoriamente a Roma dai tedeschi e deportati nei campi in Germania, Austria e Polonia. Più di 500 non tornarono perchè uccisi o morti per maltrattamenti.
Alla base del rifiuto non vi fu per i più una scelta consapevole di antifascismo quanto piuttosto il senso di onore miltare di patria, ma anche il crescente rifiuto del fascismo e della guerra Quella enorme sofferenza scelta con dignità, per molto tempo, però, non ebbe alcun riconoscimento, neppure da parte del proprio paese.
Ed ancora la persecuzione razziale e la deportazione e lo sterminio degli ebrei precedute dalle ignobili leggi razziali, portata avanti con zelo dalla Repubblica sociale ; e la lotta degli ex prigionieri alleati rimasti a combattere per la liberazione dell’Italia.
Infine la più recente storiografia ha messo in evidenza quella altrettanto trascurata e nascosta delle donne.
Un protagonismo rimosso a lungo dalle stesse componenti resistenziali, anche in ragione di una visione maschilista, che appare paradossale nel dopoguerra.
Quando, proprio grazie alla lotta di Resistenza le donne entrarono a pieno titolo nella vita pubblica e godettero formalmente di quei diritti sanciti nell’articolo 3 della nostra Carta, a cominciare dal diritto di voto da esse esercitato, per la prima volta nella storia nazionale, nel
referendum del 2 Giugno del 1946.
Questa sorta di espulsione postuma delle donne della Resistenza risulta essere, inoltre, tanto più
incomprensibile se si considera che, come scrivono Anna Brava e Anna Maria Bruzzone nel loro libro intitolato “guerra senz’armi”:
“esse sono state le uniche volontarie…in quanto non sottoposte ai bandi di reclutamento e in generale non obbligate al nascondimento” e aggiungono che “il loro impegno si manifestò sia nello scontro armato, che nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento”, nei Gruppi di difesa della donna, come nelle altre organizzazioni femminili.
Il loro numero si stima molto superiore alle 35.000 partigiane riconosciute in base alle domande presentate alle commissioni competenti alla fine del conflitto.
Un numero che anche in Liguria andrebbe ben oltre le 2.028 censite nella meticolosa ricerca dell’Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea.
Molte subirono sevizie torture e stupri anche di gruppo considerato allora un reato contro la morale e non solo dalle brigate nere ma anche dai militari della Repubblica Sociale .
Tutti questi italiani condussero una guerra senz’armi, fu una Resistenza condotta da civili, che diede vita ad una fitta rete solidaristica e che in vario modo vedeva partecipe un composito arcipelago di cittadini di ogni età e ogni ceto.
La logica terroristica delle brigate nere e delle SS preposte alla repressione antipartigiana e alle rappresaglie contro la popolazione inerme, manifestò la sua atrocità in molti eccidi tra i quali non si possono non ricordare quelli delle Fosse Ardeatine, di Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto, di Boves, di Cichero.
Ma in quei lunghi venti mesi si passerà da una Resistenza istintiva e spontanea a forme più organizzate pervase da una crescente consapevolezza antitedesca e antifascista di supporto all’azione delle Forze alleate.
In questo più generale contesto, Genova e la Liguria è stata una delle aree in cui il movimento resistenziale si espresse con più forza e combattività.
Questo certamente per le sue tradizioni repubblicane e antifasciste e particolarmente per la presenza di una classe operaia fortemente sindacalizzata, che fin dal primo conflitto mondiale era cresciuta parallelamente allo sviluppo della grande industria moderna, della cantieristica e del sistema portuale.
Dopo i grandi scioperi del marzo del ’43 nelle fabbriche di Torino e Milano la mobilitazione dei lavoratori, sulla scia delle rivendicazioni salariali, assunse sempre più connotati politici e crebbe in tutta la regione tra il dicembre del ’43 e l’inizio dell’estate del ’44, quando venne messo in atto il più grande rastrellamento di lavoratori italiani.
L’operazione si concentrò sul complesso industriale del ponente genovese dopo gli scioperi degli stabilimenti Ansaldo e San Giorgio e si concluse nel giugno del 1944, con la deportazione di circa 1500 tra operai, impiegati e dirigenti, che andarono a rinfoltire l’esercito del lavoro coatto del III Reich.
Questo accadeva poche settimane dopo la strage per rappresaglia del Turchino di 59 antifascisti già detenuti.
Nella nostra Regione il movimento partigiano risultò tra i più solidi, proprio grazie ai suoi profondi e diffusi legami col tessuto sociale e culturale del territorio.
Su circa 235.000 patrioti e partigiani riconosciuti nel dopoguerra dalle Commissioni Ricompart, i combattenti liguri sono stati oltre 35.000, dei quali 2.658 sono caduti in combattimento o a seguito di rappresaglie. A fronte di 44.720 partigiani caduti in Italia e di oltre 150 mila vittime civili.
Essi appartenevano ad ogni settore lavorativo e professionale: dall’industria all’agricoltura,
dall’Università alla pubblica amministrazione, dalle forze dell’ordine alle forze armate, con una significativa presenza di giovani provenienti dalle regioni meridionali.
Altrettanto ampio risulta il ventaglio degli orientamenti politici, religiosi e culturali, che può esemplificarsi nella biografia di alcune figure, tra le quali vorrei ricordare le luminose figure di Aldo Gastaldi, ”Bisagno” sottotenente del Genio fervente cattolico; Giacomo Buranello studente di profonda fede comunista, capo dei Gap di città, fucilato dopo torture; entrambi decorati con la medaglia d’oro al valor militare; Luciano Bolis studente ,si recise le corde vocali per non parlare; don Bobbio fucilato a Chiavari e con lui i tanti sacerdoti che presero parte alla lotta di liberazione in Liguria; il tenente dei Carabinieri Giuseppe Avezzano Comes che si rifiutò a rischio della vita di fucilare otto antifascisti; Ines Negri staffetta partigiana seviziata e uccisa a Savona come Clelia Corradini; Chiarini Rina “Clara” arrestata e seviziata alla Casa dello Studente così da perdere il figlio che aveva in grembo e tantissimi altri tra cui Nicola Panevino, giudice del Tribunale di Savona, membro del CLN, trucidato a Cravasco e Dino Col, anche lui giovane magistrato, deportato a Flossenbürg, dove morì di stenti nel dicembre del ‘44; La più compiuta biografia della Resistenza in Liguria, vide il 25 aprile la resa del Generale Günther Mainhold nelle mani dell’operaio Remo Scappini,
Presidente del CLN, dopo l’insurrezione ordinata dal CLN dell’Alta Italia a tutti i gruppi combattenti la notte del 23 aprile e terminata la sera del 26.
Un atto che salvò Genova e il suo porto dalla distruzione certa, come prevedeva il famoso piano “Z”.
Una sciagura di immani proporzioni, che venne scongiurata anche per l’impegno diplomatico, del Cardinale Pietro Boetto, Arcivescovo della città.
Quando gli Alleati giunsero a Genova trovarono la città liberata dai partigiani ai quali l’esercito tedesco si era arreso.
Autorità, cari amici,
dal quadro generale che ho sommariamente richiamato emerge, dunque, il carattere pluralistico e unitario della Resistenza italiana e di quella genovese in particolare.
Fu un insieme di scelte e di comportamenti differenti che si intrecciarono e si incrementarono nell’arco di circa venti mesi.
Nel loro progredire prevarranno caratteri più netti che diventeranno il simbolo di tutta la Resistenza.
Tutti ebbero come obiettivo la conquista delle libertà .
Tutti siamo consapevoli che senza la lotta di liberazione gli italiani non avrebbero mai potuto svolgere né il referendum Istituzionale nel quale il due giugno del 1946 scelsero la Repubblica, né avrebbero potuto scrivere autonomamente la loro Costituzione tra le più avanzate del mondo, approvata il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948.
La legge delle leggi nella quale è racchiusa la memoria del passato e la speranza del futuro, dove sono iscritti i diritti e i doveri di ognuno, l’equilibrio dei poteri e le funzioni di garanzia, contro ogni rischio di violazione dei diritti dei singoli e delle minoranze, come metteva in guardia Alexis De Toqueville.
Questo, dunque, è uno dei frutti preziosi della Resistenza, che si fonda sui valori della solidarietà e della giustizia, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo e di chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni e la dignità di ogni essere umano.
Una legge che favorisce la libera espressione delle idee che devono essere sempre tutelate e rispettate, come non fu nel ventennio famigerato e nei regimi dispotici di oggi. Essa presuppone ed esprime, in tutte le sue disposizioni e non solo nella XII transitoria che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista sotto qualsiasi forma, principi e valori opposti a quelli della cultura fascista. I diritti di libertà, di associazionismo non armato, il pluralismo ed il metodo democratico, il ripudio della guerra, il rispetto della dignità umana.
Questo è il primo discrimine tra democrazia e dittatura.
Come scrisse Italo Calvino, partigiano nell’imperiese, nel romanzo il Sentiero dei nidi di ragno: lo stesso furore portava a sparare i partigiani come i fascisti con la differenza “che noi nella storia siamo dalla parte del riscatto loro dall’altra …da noi niente va perduto nessun gesto nessuno sparo …tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, costruire una umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi…”.
Per tale ragione, questa pagina della nostra storia recente va coltivata con orgoglio e spirito di verità, non piegata a puerili logiche politiche o a grottesche manifestazioni apologetiche nostalgiche, fuori dalla storia e fuori dalla Costituzione.
Cancellarne la memoria in nome di un malinteso unanimismo significa perdere la consapevolezza e la volontà di non ripetere sotto bandiere diverse la affermazione degli stessi principi di negazione delle libertà e di affermazione di forza e violenza contro i più deboli, i diversi, i sostenitori di altre idee.
Come ha ricordato pochi giorni fa il nostro Presidente Mattarella di fronte all’orrore di Auschwitz e come le vicende internazionali ci dimostrano, l’odio, il pregiudizio, il razzismo, l’estremismo, l’indifferenza e il delirio di potenza sono in agguato e sfidano in permanenza la coscienza delle persone e dei popoli.
Dunque, siamo qui a festeggiare con fierezza la Liberazione e a ricordare un capitolo tormentato della storia del nostro Paese, il quale fin dall’immediato dopoguerra, oltre alla faticosa opera di ricostruzione, dovette affrontare una difficile transizione, in un quadro internazionale sul quale, quasi subito, calò il gelo della cortina di ferro, come disse Winston Churchill nel suo discorso a Fulton nel marzo del ’46.
Consapevoli che in quella temperie, segnata dalla guerra fredda e dalla stessa divisione dell’alleanza antifascista, il referendum istituzionale sancì la nascita della Repubblica e i Padri Costituenti seppero compiere quel vero e proprio “miracolo laico”, come lo definì Piero Calamandrei, approvando la Carta costituzionale.
La nostra Legge fondamentale, che deve essere letta e conosciuta per intero e non solo nelle parti che più ci piacciono.
Un risultato, non scontato, che, di certo, non sarebbe stato neppure immaginabile senza quel moto di riscatto morale e civile che animò la Resistenza, che, non a caso, Carlo Azeglio Ciampi definì emblematicamente “il secondo Risorgimento”. La lotta di liberazione, infatti, non vide protagonista solo una élite illuminata; non fu solo un atto di ribellione armata; essa diversamente dagli altri Stati europei che combatterono per cacciare lo straniero occupante fu allo stesso tempo lotta di affrancamento dalla tirannia, e quindi anche guerra civile, e dal dominio straniero e “progetto di futuro” e per una parte anche lotta di classe.
E il merito di ciò va ascritto, senza alcun dubbio, alla funzione dirigente che seppero esercitare i partiti antifascisti, i quali riuscirono a guardare al di là delle loro divergenze, che pure erano profonde.
Così come nessuno può negare che vennero gettate allora le basi di una nuova idea di Europa fondata sui diritti del cittadino e sull’autodeterminazione degli stati, sulla pace e sulla cooperazione tra i popoli, come venne scritto da Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e Eugenio Colorni nel Manifesto di Ventotene del 1941.
Un patrimonio di principi e di valori che appartengono a tutti e che dobbiamo saper preservare integri per l’avvenire dei nostri figli e delle giovani generazioni.
Per questo la memoria di coloro che sacrificarono la loro vita ci riguarda tutti :cerchiamo di esserne sempre degni e di non dovercene vergognare anche di fronte a loro.
Genova 25 aprile 2023
Francesco Cozzi